Recensione di Carpe Diem su RAPPER.IT del 2010
By Pablo SperoProvare ad allontanare la strada delle radici, quella degli avi trasformati in gladiatori metropolitani che con la loro dialettica fornivano resoconti amari della società in cui vivevano, consente una visione della musica dal punto di vista della semplicità e della negazione verso tutto ciò che possa trascendere dall’inquietudine. È d’accordo Pablo Spero. L’album Carpe Diem scopre immediatamente le carte partendo dal titolo, plasmato dentro una dimensione, il rap, che a dirla tutta non oltrepassa il significato oraziano di cogli l’attimo, limitandosi a girargli intorno. Trasparente schema tematico in L’Agosto, praticamente una spudorata affermazione del concetto pocanzi espresso e subito dopo abbandonato, lasciando libero il passaggio a concetti meno aurei (1997-2009). Immancabile esercizio tecnico, la metrica diverta un accostamento al modo di rappare fluido, alternando la discorsività delle parole e la rima nascosta cautamente, così da essere un fattore interno al normale ascolto, senza accentuare la sua presenza. Ne consegue una fluidità puntante al timbro della voce. Acuti e gravi non seguono una struttura omogenea, ma sono liberi di emergere a proprio comodo. Se il flow risulta essere difficoltoso d’assimilare (dopo diversi ascolti ciò diventa familiare), il sound sgombra il campo visivo dalle nuove attrazioni produttive e riabbraccia una old school scomparsa da tempo, testimonial il Walkman in copertina. Nonostante le reminiscenze e la cosciente presa di posizione, contrari al contemporaneo pensare, la pecca è spiattellata arrogantemente nel missaggio audio, con forti colpi di batteria e altri aggregati compositivi, che rendono maggiormente disattenta l’attenzione dell’ascoltatore riservata alla parte strofica. Tuttavia, è un’osservazione riscontrabile nelle prime battute e successivamente in maniera sporadica.
‹‹Pensavo fosse hardcore, invece era un calesse››, (da Idee).